Ogni esempio di testo costruito secondo regole precise apre la molteplicità "potenziale" di tutti i testi virtualmente scrivibili secondo quelle regole, e di tutte le letture virtuali di quei testi. Italo Calvino
DOPPIO EPILOGO PER ANDREA
Venticinque per trentatré
Biblioteca Oplepiana N. 39
(2015)
Si tratta di un racconto pseudo-poliziesco scritto a più mani con l'intento di rendere omaggio all'Oplepo in occasione del compimento dei suoi venticinque anni di vita.
Vi hanno partecipato 11 oplepiani (Daniela Fabrizi, Laura Brignoli, Eliana Vicari, Piergiorgio Odifreddi, Piero Falchetta, Raffaele Aragona, Lorenzo Enriques, Elena Addomine, Paolo Pergola, Maria Sebregondi, Giuseppe Varaldo) realizzando ciascuno un brano di lunghezza prefissata (825 battute, compresi gli spazi, prodotto di 25, il numero degli anni di vita dell'Oplepo, e 33, il numero degli oplepiani) e in linea con quello precedente.
Ecco l'incipit del racconto, con i primi due contributi di 825 battute:
Daniela Fabrizi
Era vestito da agente immobiliare. A luglio, due del pomeriggio. Scarpe nere, vestito nero, camicia bianca, senza cravatta. L’aria era immobile come il muro a secco dove stava appoggiato, assieme a due lucertole verde chiaro. La masseria accecava come una luna grassa e bianchissima. Era arrivato in anticipo come sempre: metà della sua vita se n’era andata in lentezze e attese. Guardò il foglio per la terza volta: “14.30. Consegnare chiavi. Andrea Gilbert: già saldati mesi di luglio, agosto, settembre.”. Una lucertola s’infilò liquida in una fessura; dopo qualche secondo tornò fuori, testa e cuore, a pulsare piano nel sole. In quel momento la vide arrivare: auto scoperta, polvere che si alzava come un sipario, quasi un’eco di musica di Ennio Morricone. Le cicale scomparvero, o forse il motore ne inghiottì il canto.
Laura Brignoli
Un arrivo da pop star – si disse. Nulla di che stupire uno che cercava di sistemare ogni piega del suo essere, interiore ed esteriore, all’immagine che ci si attendeva da lui. Stupire non gli era mai piaciuto fin da quando, alle elementari, lo faceva suo malgrado ogni volta che tirava fuori la merendina dallo zaino. Era difficoltoso avere una madre vegana quando nessuno ancora sapeva cosa fosse il veganismo, in una regione dove rimpinzarsi dei cibi più deleteri era l’imperativo trasversale di ogni classe sociale. Appena aveva iniziato a chiedersi quale fosse il suo posto nel mondo, si era scontrato con la diversità che sua madre gli imponeva. Perciò il suo posto, quello che fosse proprio suo, e di nessun altro, lui non l’aveva mai trovato. In compenso era abilissimo nel trovarlo per gli altri. Gli bastava un nome.
(...)